Dici “gregoriano” e subito il pensiero corre al canto liturgico. Ma se gli accosti l’aggettivo “newtoniano” la … musica cambia. E allora “gregoriano” può anche diventare un telescopio, così chiamato in onore del suo inventore James Gregory (1638-1675), matematico e astronomo scozzese. Lo ideò nel 1661, ne diede notizia sul libro “Optica Promota” due anni dopo e nel 1673 Robert Hooke realizzò il primo esemplare. In quegli anni stava ideando un progetto similare anche Isaac Newton (1643-1727), ritenuto il fondatore della scienza moderna. Newton realizzò il proprio telescopio – il telescopio “newtoniano” –  con alcune varianti rispetto a quello di Gregory ma non riuscì a superarlo in praticità.

Il “gregoriano”, infatti, detto anche a “riflessione”, o catottrico, forniva una immagine dritta, nitida. Si diffuse rapidamente perché trovava un vasto impiego soprattutto per osservazioni terrestri oltre che per lo studio della volta celeste.

Uno strumento di puntamento tanto efficace e moderno come quello inventato da Gregory non poteva mancare certamente nel gabinetto di fisica della Biblioteca del Seminario di Padova, che il genio del vescovo Gregorio Barbarigo trasformò in un centro culturale di respiro europeo.

Oggi accanto alla pila di Alessandro Volta, a microscopi, a vecchi barometri e a macchine elettriche geniali, nel gabinetto di fisica, che sorge accanto alla Biblioteca Antica del Seminario, continua a essere puntato verso il cielo un austero, elegante nella sua semplicità, un “telescopio gregoriano”, giunto a Padova a cavallo fra Seicento e Settecento.

E’ firmato – “Culpeper Fecit” – da Edmund Culpeper (1660-1738), artigiano dalle eccelse qualità, incisore e ottico londinese. E’ appoggiato su una cassettina, di un bel marrone lucido, che gli dà stabilità (lunga 487 mm, larga 150 e alta 79). Sotto la firma ci sono due sigle: N.O. e D.O. abbreviazioni di Night Observation e Day Observation.

Il telescopio gregoriano è costituito da due specchi concavi per l’obiettivo, e da due lenti convergenti per l’oculare. Uno specchio concavo di metallo a sezione parabolica, con un foro al centro, riceve dall’oggetto osservato, molto lontano, i raggi luminosi e, mediante riflessione, forma un’immagine reale davanti ad un piccolo specchio mobile, concavo e a sezione ellittica, con diametro circa uguale a quello del foro. Il secondo specchio riflette, quindi, i raggi verso il foro ed essi vengono raccolti dalla prima lente oculare. Spostando lo specchietto, la seconda lente forma un’immagine virtuale ingrandita, ma soprattutto dritta.

Il telescopio – potrebbe anche essere chiamato cannocchiale perché meglio si adatta all’osservazione di oggetti sulla terra, mentre il termine telescopio è riservato agli strumenti che osservano gli astri-  è lungo 44 millimetri e ha un diametro di 60 mm. Ha una vite micrometrica esterna che serve per mettere a fuoco l’immagine mediante lo spostamento dello specchietto di rinvio.

Per sottolineare quanto Padova fosse attrattiva dal punto di vista culturale negli anni in cui si svilupparono le conoscenze scientifiche, cui diede poi grandissimo impulso anche il vescovo Barbarigo, merita di essere sottolineata la presenza in città dello stesso James Gregory.

Soggiornò a lungo a Padova fra il 1664 e il 1668. Non sappiamo se abbia incontrato il neovescovo cittadino Gregorio Barbarigo (era entrato a Padova il 24 marzo 1664). E’ documentata invece la sua frequentazione con Stefano degli Angeli (1623-1697), matematico e filosofo (vestì l’abito dei Gesuati o “chierici apostolici di S. Girolamo”, la congregazione fondata dal Beato Giovanni Colombini di Siena) dal quale apprese come trattare gli sviluppi in serie delle funzioni. Gegory prima di lasciare Padova pubblicò il libro “Geometriae pars universalis”.

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